*L’immagine è “Terre Senza Tempo” di Tullio Crali, 1964

Molte persone si sentono imprigionate dal proprio passato, come se le esperienze vissute – soprattutto quelle negative – determinassero in modo definitivo il loro presente e il loro futuro. Questo atteggiamento, spesso inconscio, può portare a una sorta di paralisi emotiva, in cui si crede che non ci sia alcuna possibilità di cambiamento o miglioramento.

Uno dei concetti chiave per comprendere questo fenomeno è quello della “impotenza appresa”, studiata dallo psicologo Martin Seligman. Attraverso esperimenti sugli animali e sugli esseri umani, Seligman ha dimostrato che, quando una persona subisce ripetute esperienze negative senza poterle controllare, finisce per sviluppare la convinzione che qualsiasi tentativo di cambiamento sia inutile. Anche quando si presenta un’opportunità per uscire dalla situazione negativa, la persona non riesce più a reagire, convinta che tutto sia già deciso e immutabile.

Ma davvero il nostro passato ha un potere così assoluto su di noi? La neuroscienziata Lisa Feldman Barrett spiega che il nostro cervello non è un semplice archivio della realtà, ma una macchina predittiva. Questo significa che le nostre percezioni del presente sono fortemente influenzate dalle esperienze passate. Se qualcuno è cresciuto in un ambiente instabile o ha vissuto eventi traumatici, il suo cervello tenderà a vedere il mondo come un luogo imprevedibile e pericoloso, anche quando non ci sono più minacce reali.

Tuttavia, ciò non significa che siamo condannati a ripetere i nostri schemi passati. Al contrario, è possibile riprogrammare il modo in cui interpretiamo la realtà. Un primo passo fondamentale è assumersi la responsabilità del proprio presente, senza però confondere questa responsabilità con il senso di colpa. Feldman Barrett sottolinea che “non sempre siamo responsabili perché è colpa nostra, ma perché siamo gli unici a poter cambiare le cose”. In altre parole, anche se non abbiamo scelto ciò che ci è accaduto in passato, possiamo scegliere come reagire oggi.

Cambiare prospettiva: dalle domande che paralizzano a quelle che liberano

Uno degli strumenti più efficaci per liberarsi dal passato è cambiare il tipo di domande che ci poniamo. La psicologa Tasha Eurich, esperta di autoconsapevolezza, ha scoperto che le persone più resilienti e consapevoli di sé tendono a chiedersi “Cosa?” invece di “Perché?”.

Chiedersi continuamente “Perché mi è successo questo?” o “Perché sono fatto così?” porta spesso a risposte che rafforzano l’impotenza: “Perché ho avuto un’infanzia difficile”, “Perché non sono abbastanza bravo/a”, “Perché la vita è ingiusta”. Queste risposte non portano ad alcuna soluzione, ma alimentano il senso di frustrazione e blocco.

Al contrario, domande come “Cosa posso fare per cambiare questa situazione?” o “Cosa posso imparare da questa esperienza?” permettono di spostare l’attenzione sulle possibilità di azione, trasformando il passato in una risorsa di crescita anziché in una condanna.

Il pericolo di identificarsi con il proprio trauma

Un altro aspetto fondamentale per smettere di essere vittime del proprio passato è evitare di trasformare il trauma in un’identità. La psicologa Edith Eger, sopravvissuta all’Olocausto, distingue tra vittimizzazione e vittimismo.

  • La vittimizzazione è qualcosa che accade dall’esterno: un evento negativo, una perdita, un trauma subito.
  • Il vittimismo è invece una scelta interiore: quando si continua a vedere se stessi esclusivamente come vittime, anche dopo che il pericolo è passato.

Oggi, la cultura contemporanea pone molta attenzione al trauma e alla sofferenza, il che è positivo perché aiuta a riconoscere il valore delle esperienze difficili. Tuttavia, c’è il rischio di rimanere intrappolati nel ruolo di vittima, come se il dolore fosse l’unico elemento che definisce la nostra identità. Questo atteggiamento può portare a giustificare l’immobilità e a evitare di assumersi la responsabilità del proprio cambiamento.

Le ricerche dimostrano che gli esseri umani sono naturalmente resilienti. Anche dopo eventi traumatici, la maggior parte delle persone riesce a ricostruire la propria vita e, in molti casi, a diventare più forti. Questo processo è noto come crescita post-traumatica: non si tratta di dimenticare ciò che è accaduto, ma di trasformarlo in un elemento di crescita.

Il potere del linguaggio: come descriviamo le nostre emozioni cambia il modo in cui le viviamo

Infine, un fattore spesso sottovalutato nel processo di cambiamento è il modo in cui descriviamo le nostre emozioni.

Le persone con un’alta granularità emotiva – ovvero la capacità di identificare e descrivere con precisione le proprie emozioni – sono meno vulnerabili allo stress e all’ansia. Ad esempio, invece di dire semplicemente “mi sento male”, chi possiede un buon vocabolario emotivo è in grado di riconoscere se sta provando tristezza, frustrazione, rabbia, nostalgia o insicurezza. Questa consapevolezza permette di rispondere in modo più efficace alle emozioni, anziché esserne sopraffatti.

In altre parole, il modo in cui raccontiamo il nostro passato e le nostre emozioni non è neutrale: più siamo in grado di dare un nome preciso alle nostre esperienze interne, più diventiamo capaci di gestirle.

Conclusione

Smettere di essere vittime del proprio passato non significa negare le difficoltà vissute, ma scegliere di non lasciare che esse definiscano il nostro futuro.

Attraverso un cambio di prospettiva – assumendoci la responsabilità del nostro presente, ponendoci domande orientate all’azione, evitando di identificarsi con il trauma e migliorando il nostro linguaggio emotivo – possiamo trasformare la nostra storia in una risorsa, anziché in una prigione.

La nostra storia passata non cambierà, ma noi possiamo cambiare il modo in cui la interpretiamo e affrontiamo il futuro.

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**La presente sintesi è stata realizzata con l’IA e rivista dai consulenti PRIMATE