*L’immagine è “Linee Forza Di Mare – Libecciata” di Giacomo Balla, 1919

Viviamo in un contesto lavorativo dominato dalla “doing mode”, una modalità operativa ossessiva incentrata sul fare: fissare obiettivi, spuntare liste di attività, raggiungere target a breve termine. Questa mentalità, pur utile alla sopravvivenza aziendale, sta diventando eccessiva. Secondo un sondaggio condotto da Megan Reitz e John Higgins tra oltre 1.500 middle e senior manager globali, il 39% non riesce a prendersi pause per riflettere, il 59% considera le riunioni “affrettate”, il 37% le vive come “distraenti” e il 29% non ha tempo per rispondere in modo ponderato agli altri.

Il rischio di vivere solo in doing mode è perdere di vista le sfide più grandi, danneggiare le relazioni e smarrire il senso e il piacere del lavoro e della vita. Le intuizioni più profonde emergono spesso negli spazi tra un’azione e l’altra, non durante l’iperattività.

Una manager intervistata, Anne, racconta di aver concluso il 2023 sopraffatta, con un’esplosione emotiva che ha inciso sulle relazioni e sulla performance. Solo una valutazione mediocre l’ha spinta a cambiare rotta. Ma uscire dalla doing mode non significa solo prendersi del tempo: significa attivare una diversa forma di attenzione.

Gli autori chiamano questa modalità “spacious mode”: una qualità di attenzione ampia, non affrettata, che permette di cogliere connessioni, complessità e dimensioni non misurabili della realtà. Spacious mode è altrettanto cruciale come la doing mode per chi guida persone e organizzazioni.

Tuttavia, la cultura organizzativa tende a premiare solo l’efficienza visibile e penalizza chi rallenta. Come osserva Paula, una manager americana: “Chi è mai stato elogiato per essersi preso una pausa?”. Anche chi ci prova rischia di cadere in vecchie abitudini, come Anne, che durante le pause continuava a rimuginare sulla to-do list, sentendosi in colpa.

Come passare dalla teoria alla pratica senza compromettere il lavoro? Gli autori propongono strategie concrete:

 

  1. Darsi il permesso di rallentare

Spesso siamo noi stessi a impedirci di accedere alla spacious mode. Colleghiamo il nostro valore personale alla produttività. Un primo passo è riconoscere i benefici di questa modalità e i rischi di vivere costantemente in doing mode. Molti temono ciò che potrebbero scoprire fermandosi: errori, scelte sbagliate, fragilità. Serve quindi coraggio e consapevolezza dei costi del non fermarsi.

 

  1. Allenare la mente alla “spaziosità”

Anche 10 minuti al giorno di mindfulness possono aiutare a creare uno spazio tra stimolo e risposta, aprendo a decisioni più sagge. Un’alternativa rapida è prestare attenzione al corpo, alle sensazioni fisiche o al respiro. Questo piccolo gesto può interrompere il flusso automatico del fare.

Un CEO intervistato ha adottato la tecnica del body scan prima dei colloqui difficili, migliorando le relazioni e riducendo il bisogno di conflitti.

 

  1. Rendere più sicuro lo spazio di pausa

In contesti dominati dalla doing mode, conviene iniziare in modo discreto, con ciò che i ricercatori chiamano “guerrilla spaciousness”. Alcuni esempi:

  • Porre domande ampie e riflessive che stimolano la prospettiva critica senza apparire come deviazioni.
  • Cambiare ambiente: una camminata durante una riunione, uno sguardo al paesaggio, un momento nella natura.
  • Inserire pause in calendario, anche con codici creativi. Una leader ha bloccato l’ultimo martedì del mese con la sigla “FAMT”, acronimo di F*ck to All Management Team-meetings, evitando ogni meeting senza destare sospetti.

 

  1. Scegliere buone compagnie

Anche se non possiamo scegliere i colleghi, possiamo cercare persone e contesti che favoriscano la riflessione, evitando chi alimenta lamentele e rigidità. Durante la pandemia, il progetto Spaces for Listening ha dimostrato l’impatto di spazi semplici ma profondi di ascolto condiviso.

 

  1. Prendersi una pausa

Prendersi una pausa non è un lusso: è un’altra forma di lavoro, critica e necessaria. È un atto di leadership che può ispirare anche gli altri a fare lo stesso.

 

Leggi l’articolo completo di Megan Reitz e John Higgins su MIT Sloan Review

**La presente sintesi è stata realizzata con l’IA e rivista dai consulenti PRIMATE.

***Fino ad ora abbiamo utilizzato un linguaggio inclusivo inserendo i corrispettivi femminili dei termini e usando la vocale schwa (ə) quando possibile; purtroppo diversi lettori ci hanno segnalato che queste soluzioni rendevano poco scorrevoli gli articoli, pertanto abbiamo scelto di ripristinare le frasi al maschile solo per facilitare la lettura.