Neuromarketing, neurogestione, neurofinanza. I sostenitori dell’utilizzo delle neuroscienze nel mondo del business sono convinti che consentano di prevedere i comportamenti di clienti e collaboratori, permettendo di sviluppare prodotti più accattivanti e pratiche più efficaci. Tutto questo è vero solo in parte: infatti ci sono tre aspetti da prendere in considerazione prima di investire in soluzioni basate sui risultati delle ricerche sul cervello umano.
- Scelta ed uso corretto dei proxy. Un proxy è una misura indiretta utilizzata per prevedere qualcosa che altrimenti sarebbe difficile o impossibile da misurare; per esempio i talent scout di baseball utilizzano le percentuali della lega minore per prevedere con quale frequenza i giocatori “andranno in base” nella major league. Per essere significativo, un proxy deve soddisfare tre criteri: affidabilità (si basa su pool di dati molto grandi), validità (è stato replicato in modo indipendente) e utilità (ha un rapporto costi-benefici favorevole). Non c’è motivo di pensare che le ricerche sul cervello non possano essere usate come proxy, ma è importante verificare il rispetto di questi tre requisiti.
- Valutazione dell’interazione fra il cervello e gli altri sistemi corporei. Spesso le neuroscienze vengono utilizzate in ambito commerciale per prevedere il comportamento delle persone; tuttavia non sempre i risultati ottenuti sono completi e applicabili a livello pratico. Infatti, il principio dell’emersione ci dice che quando delle entità semplici interagiscono all’interno di un ambiente condiviso, possono sorgere comportamenti nuovi e più complessi, non presenti né prevedibili nelle singole entità (come si dice: il tutto è maggiore della somma delle sue parti). L’attività mentale deriva dall’interazione del sistema nervoso con gli altri sistemi corporei (es: digestivo, cardiovascolare…) e per questo non può essere spiegata o prevista se non si prendono in considerazione tutti questi sistemi contemporaneamente. Il limite delle ricerche neuroscientifiche applicate al business è che spesso trascurano questo principio e studiano i dati cerebrali senza considerare quelli comportamentali. Ma se per avere risultati attendibili è necessaria l’analisi comportamentale, e se la spiegazione comportamentale è anche il fine ultimo di queste ricerche, qual è la reale utilità dei dati cerebrali?
- Traduzione dei dati rilevati a situazioni diverse. Nell’ambito scientifico, per traduzione si intende l’utilizzo dei dati rilevati in un campo per ottenere principi praticamente utili in un campo diverso e non correlato. Una traduzione efficace prevede che i ricercatori raccolgano dati anche nel campo in cui stanno tentando di tradurre. Se questo non avviene, le informazioni risultano difficili da utilizzare. Per esempio: sappiamo che alti livelli di ossitocina sono correlati alla fiducia all’interno di un team, quindi i manager vengono incoraggiati a compiere azioni che ne potenzino la produzione. Ma come? I soli dati cerebrali, se non sono supportati da quelli comportamentali, non rispondono a questa domanda. Nel momento in cui raccogliamo dati comportamentali (per esempio: notiamo che la fiducia dei collaboratori aumenta quando vengono chiamati per nome), però, i dati cerebrali diventano irrilevanti. A quel punto, infatti, non è così utile conoscere quale ormone specifico è coinvolto, ci basta sapere che quel dato comportamento genera il risultato che vogliamo.
In sintesi, l’applicazione delle neuroscienze al business può avere buoni risultati, ma i manager devono avere aspettative realistiche su ciò che possono ottenere e prendere sempre in considerazione i limiti che abbiamo elencato, che sono propri della ricerca scientifica in generale.
Per approfondire e conoscere alcuni esempi di ricerche “fallimentari” in questo ambito, leggi l’articolo di Jared Cooney Horvath su sloanreview.mit.edu