*L’immagine è “I Want To Be What You Saw In Me” di Banksy

 

Nel lavoro contemporaneo, gran parte delle difficoltà che emergono nei team non nascono da incompetenza tecnica, scarsità di risorse o obiettivi mal definiti: si manifestano molto prima, nel modo in cui leggiamo le intenzioni degli altri. In contesti di pressione, trasformazione continua e interdipendenze crescenti, molti leader scelgono per prudenza un atteggiamento scettico verso collaboratori, colleghi o altre funzioni. Quando lo scetticismo diventa abitudine, però, si trasforma in un presupposto di sfiducia che altera il clima, indebolisce le relazioni e rallenta ogni cambiamento. È un meccanismo talmente diffuso da sembrare normale, ma è anche uno dei più costosi per organizzazioni che vogliono crescere, innovare e trattenere talenti.

La tendenza alla sfiducia nasce da un contesto reale: turbolenza, volatilità e iper-complessità rendono più frequenti sovra-promesse, silenzi, omissioni e comportamenti politici. Committenze che si perdono tra funzioni, priorità che cambiano, informazioni che si frammentano. Eppure, scegliere la sfiducia come stato mentale predefinito non protegge: distorce. Un leader che interpreta ogni segnale come un tentativo di approfittarsi della situazione riduce la propria capacità di ascoltare e osservare con lucidità, proprio quando la qualità dell’informazione diventerebbe decisiva.

La dinamica è semplice e pericolosa. Se presumi intenzioni egoistiche, smetti di prestare attenzione ai segnali positivi, filtri meno accuratamente i contenuti e reagisci a ciò che immagini, non a ciò che accade. Un esempio emblematico è quello di un CEO che aveva invitato le funzioni di sede centrale a coinvolgere attivamente le persone sul campo prima di definire nuove policy. Una task force ci ha provato davvero: interviste diffuse, raccolta di feedback, proposte concrete per semplificare il sistema di performance. Eppure, quando ha presentato il lavoro, il CEO lo ha respinto come l’ennesima imposizione della sede, non riconoscendo nessuno degli sforzi fatti. Quando il contributo viene ignorato, la relazione si spezza: i team imparano rapidamente che non vale la pena esporsi due volte.

La ricerca sistemica conferma questo ciclo. Quando le persone percepiscono che il loro impegno non viene colto, valutato o utilizzato, riducono il contributo, generando un ulteriore calo della fiducia nella possibilità di incidere. È un classico loop al ribasso: meno riconoscimento produce meno sforzo, che a sua volta viene interpretato come mancanza di affidabilità. In contesti di cambiamento, questa spirale è particolarmente critica, perché chiedere alle persone di fare di più senza offrire basi solide di fiducia compromette ogni trasformazione.

Il rischio più profondo è che la sfiducia diventi cinismo. Il cinismo non è realismo: è una strategia di autoprotezione che finisce per corrodere carriera, relazioni, salute e anche etica personale. La Josephson Institute mostra che chi sviluppa convinzioni ciniche tende più facilmente a giustificare comportamenti discutibili come piccole bugie, scorciatoie o omissioni. In altri termini: quando pensiamo male degli altri, iniziamo a tollerare il peggio in noi stessi.

Per superare questi rischi è importante sviluppare discernimento, non ingenuità. Fidarsi non significa chiudere gli occhi davanti ai fatti. Significa, al contrario, vedere l’intero quadro: rischi e potenzialità, limiti reali e contributi autentici. Per farlo, è necessario riconoscere tre segnali di default alla sfiducia e lavorare in modo più intenzionale.

1. Il primo segnale è la presenza ricorrente di gap sul riconoscimento nei feedback e nelle survey. Quasi tutte le organizzazioni li vedono, ma spesso vi rispondono con interventi macro che non toccano la leva principale: l’attenzione quotidiana ai progressi delle persone. Ogni piccolo passo, soprattutto quando deriva da un coaching o da una richiesta precisa, è un momento cruciale in cui dimostrare che l’impegno è reale, visibile e apprezzato. La mancanza di riconoscimento locale è uno dei modi più veloci per far crollare la fiducia.

 

2. Un secondo segnale è la sensazione persistente che “gli altri non sono abbastanza impegnati”. Spesso questa percezione non nasce da reali mancanze, ma da assunzioni sbagliate che impediscono di vedere lo sforzo in corso. Testare le proprie ipotesi diventa una competenza manageriale essenziale. Fare domande, andare a vedere, comprendere i vincoli. E creare le condizioni perché le persone possano restituire informazioni senza timore. Il commitment non si valuta dall’esterno: si scopre dialogando.

 

3. Il terzo segnale è la rapidità con cui si formulano giudizi. Quando si sale velocemente la “scala dell’inferenza”, si passa in pochi secondi da un dato a un’interpretazione, poi a un’azione, e infine a conclusioni che diventano auto-conferme. Il problema non è sbagliare valutazione: è non accorgersi più di averla sbagliata. Un leader non cerca conferme della propria idea iniziale. Cerca segnali di buona volontà, aperture, prime mosse positive su cui costruire un ciclo virtuoso.

 

La fiducia non è ottimismo ingenuo: è una scelta strategica. Significa riconoscere che molte persone, ogni giorno, provano davvero a contribuire nel migliore dei modi possibili. Significa vedere i tentativi, non solo gli errori. E significa agire in modo coerente, perché la fiducia è sempre ricorsiva: ciò che un leader vede influenza ciò che un team diventa.

Come suggerisce la citazione di Max Ehrmann, il mondo non è solo pieno di inganni e malafede, ma anche di ideali e di eroismi quotidiani. L’esercizio di un leader consiste nel non farsi accecare dai rischi al punto da perdere la vista della parte migliore delle persone. Perché quella parte esiste, spesso più di quanto pensiamo, e riconoscerla è ciò che permette ai team di crescere, collaborare e trasformare davvero il proprio contesto.

 

Clicca qui per leggere l’articolo completo di Elizabeth Doty su strategy + business

**La presente sintesi è stata realizzata con l’IA e rivista dai consulenti PRIMATE.
***A lungo abbiamo adottato un linguaggio inclusivo, usando anche la vocale schwa (ə). Diversi lettori ci hanno però segnalato che questo rendeva gli articoli meno scorrevoli, perciò abbiamo scelto di tornare a una forma al maschile per favorire la lettura. PRIMATE resta profondamente sensibile ai temi di Diversity, Equity & Inclusion e continuerà a promuovere una cultura organizzativa rispettosa e inclusiva, in ogni sua forma.