*L’immagine è “London Animals” di Banksy

 

E se nessuno avesse davvero il potere? Né il CEO, né il presidente, né il fondatore. L’idea che il potere possa essere “posseduto” da un individuo è un’illusione: rassicurante, ma pericolosa. Secondo Ted Rau, anche i modelli di self-management che mirano a “distribuire il potere” restano prigionieri dello stesso paradigma occidentale che ci ha portato a credere nella separazione degli individui e nella possibilità di trattare il potere come un oggetto da possedere.

Questa visione ignora una verità più radicale: nella realtà, tutto è interconnesso. Ogni azione è resa possibile solo da un intreccio di condizioni, circostanze e relazioni che si accumulano nel tempo. Non è mai una singola persona a “fare accadere le cose”.

Il linguaggio stesso ci tradisce. In inglese si dice “he has power”, come se il potere fosse una proprietà individuale. Ma se definiamo il potere come “la capacità di muovere risorse o influenzare l’ambiente”, la catena causale non è mai semplice. Prendiamo l’esempio di chi paga qualcuno per pulire un jet privato: la possibilità di impartire quell’ordine dipende dall’esistenza stessa del jet, dall’invenzione dei motori, dalla ricchezza accumulata in passato, dal bisogno di denaro della persona assunta. La causalità lineare è una menzogna invisibile: ogni interazione è l’esito di milioni di condizioni concatenate. Di conseguenza, non è vero che un capo “fa fare” qualcosa a una persona. È l’intero contesto a renderlo possibile. Senza il contesto, nessuno “ha potere” sugli altri.

Se prendiamo sul serio l’interconnessione, dobbiamo rivedere la nostra idea di potere. Il potere vive nei pattern di relazioni che consentono o impediscono certe azioni. Un fondatore “muove risorse e persone” non per doti personali, ma perché il sistema (banche, mercato, cultura organizzativa) riconosce il suo ruolo e configura le condizioni per cui la sua firma o la sua voce contano.

Il potere è nel sistema, non nella persona. È come un letto di fiume scavato nel tempo: l’acqua scorre in certe direzioni non perché “è potente”, ma perché il terreno è stato modellato così. Allo stesso modo, i rapporti sociali determinano le possibilità di azione.

Per questo parlare di “distribuire” o “condividere” il potere è fuorviante: presuppone che qualcuno lo abbia per primo. In realtà, possiamo solo riprogettare le condizioni affinché più possibilità emergano. Non è un tratto individuale, ma un affordance strutturale.

Un’altra illusione comune è credere che le azioni possano essere scollegate dalle responsabilità. Ma in un mondo relazionale ogni gesto modifica l’intero campo. Ogni azione cambia la configurazione delle relazioni e lascia un’impronta permanente. Un esempio semplice: se qualcuno mente e poi ammette la bugia, non si torna al punto di partenza. La fiducia si è incrinata: il campo ricorda. L’impatto resta.

Per questo è fuorviante parlare di “usare il potere responsabilmente”, come se responsabilità e potere fossero due dimensioni separate. Il potere è intrinsecamente responsabilità, perché ogni azione plasma il campo e ne modifica la forma. Non esiste azione senza impatto.

Ciò rende irrilevanti anche le intenzioni dichiarate. Non importa cosa dice un purpose statement: conta solo come cambia la realtà dopo che l’azione è avvenuta. Dove sono aumentate le scelte, dove si è creata coerenza, dove invece il campo si è irrigidito?

Questa visione rivoluziona il modo di pensare le imprese. Se il potere non è mai nelle mani di qualcuno, non ha senso chiedersi “chi decide?”. La domanda giusta è: come viene modellato il campo relazionale dell’organizzazione?

Da qui discendono alcuni principi operativi:

  • Il contesto è primario. L’organizzazione è un campo di relazioni — tra persone, concetti, oggetti, memorie, corpi.
  • Ogni configurazione ha margini di movimento diversi. Alcuni pattern rendono più facile certe azioni, altri le bloccano. Chi non può permettersi un’auto o un asilo non potrà accedere a certi lavori: non per mancanza di “potere individuale”, ma per una configurazione che restringe possibilità.
  • Ogni azione cambia il campo. Non esistono decisioni reversibili che riportino “indietro”: ogni scelta riposiziona l’insieme.
  • Il potere non si distribuisce, si custodisce. La vera pratica organizzativa è lo stewardship: prendersi cura temporaneamente di una parte del campo, in dialogo continuo con il tutto, creando condizioni perché le persone possano percepire ciò che serve e agire in modo appropriato.

 

Rau sottolinea che il nostro attaccamento al concetto di potere nasce dalla paura. Quando siamo spaventati, stringiamo il controllo, cerchiamo figure forti o alimentiamo teorie del complotto: tutto pur di credere che “qualcuno sia in carica”. Ma questa è una difesa illusoria.

Lasciare andare l’idea di potere significa abbracciare l’interconnessione. Significa riconoscere che non si tratta del nostro ego o della nostra autonomia, ma di come il campo relazionale si muove. Accettare questo ci permette di sentirci parte di un tutto più grande: al tempo stesso la nostra più profonda aspirazione e la nostra più grande paura.

 

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**La presente sintesi è stata realizzata con l’IA e rivista dai consulenti PRIMATE.
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